sabato 11 maggio 2013

Cesaratto e Reichlin sulla diseguaglianza (da Micromega)

Rammentandovi l'appuntamento di lunedì (aperto a tutti), pubblichiamo più sotto la mia discussione con Reichlin pubblicata su Micromega. Rammento anche la discussione con Franzini pubblicata su Economia e politica, Micromega on line e su questo blog (qui e qui).

Le ragioni dell’eguaglianza”, incontro pubblico a Roma lunedì 13 maggio 2013

 
 
Il Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza Università di Roma ha organizzato un incontro pubblico il 13 maggio 2013, dalle ore 15 alle ore 18.30, presso la Sala del Consiglio della Facoltà di economia (Palazzina della Presidenza, secondo piano. Via del Castro Laurenziano 9).

La discussione, coordinata da Maurizio Franzini (direttore del Dipartimento), sarà introdotta dai contributi di Andrea Brandolini (Banca d'Italia), Daniele Checchi (Università Statale di Milano), Elena Granaglia (Università di Roma Tre), Massimo Mucchetti (senatore della Repubblica, Partito democratico).

Seguiranno gli interventi degli autori del volume: Nicola Acocella, Emilio Carnevali, Sergio Cesaratto, Paolo De Ioanna, Mauro Gallegati, Raffaello Lupi, Mario Pianta, Massimo Pivetti, Alessandro Roncaglia, Roberto Petrini, Michele Raitano, Pietro Reichlin.


Eguaglianza? Dipende

Dialogo fra Sergio Cesaratto e Pietro Reichlin
Da Micromega 3/2013 pp. 99-116
MICROMEGA: Con lo scoppio della crisi economica nel 2008 ha riguadagnato centralità anche in Occidente la questione sociale. Si è così ricominciato a parlare di povertà, diseguaglianze, equità, tanto nell'analisi delle dinamiche della crisi quanto in merito alle politiche necessarie a farvi fronte.
Non sempre però, anche all'interno del vasto campo della sinistra, con le parole equità, giustizia sociale, eguaglianza ci si riferisce a concetti condivisi “pacificamente” da tutti. Sono parole dal significato estremamente vago e sfuggente, che è bene precisare.


Qualche mese fa è uscito un importante saggio di Pietro Reichlin e Aldo Rustichini intitolato “Pensare la sinistra. Tra equità e libertà” (Laterza) in cui i due autori, due economisti, si propongono come primo obiettivo quello di “aggiornare e ridiscutere il concetto di equità”.
Professor Reichlin, perché ritiene che la sinistra sia legata ad una visione antiquata e ormai inservibile della realtà e in che modo secondo lei si dovrebbe approdare ad un “cambio di paradigma”? Di quali nuove idee avrebbe bisogno la sinistra oggi?
REICHLIN: Innanzitutto preciso che le idee contenute nel nostro saggio non sono affatto nuove. Attingono ad una tradizione ormai consolidata, che è quella del liberalismo di sinistra.
Il nostro punto di partenza è questo: un concetto di equità che si focalizza principalmente sull’“uguaglianza dei risultati” e fa leva su un modello molto invasivo di stato sociale, confligge in primo luogo con un altro concetto molto importante, soprattutto nelle società moderne: quello della libertà. Della libertà individuale e della responsabilità.
Chiunque si metta a ragionare su cosa determina una distribuzione equa delle risorse deve fare i conti con la complessità legata alla diversità – umana, caratteriale, psicologica, - tra gli individui. E la domanda che sorge è: cosa determina la soddisfazione di una persona? Cos’è che per ciascuno di noi rappresenta l'idea di ”successo”? Cosa ci gratifica? L’uguaglianza dei salari esaurisce ciò che noi pensiamo riguardo ad una distribuzione equa delle risorse? Io ritengo di no, anche perché il salario è solo uno dei fattori alla base della nostra soddisfazione: esistono anche la posizione sociale raggiunta, la tipologia del lavoro, i riconoscimenti non materiali, eccetera.
C’è poi un altro problema ancora più importante. Un paternalismo eccessivo – connesso ad uno stato invasivo che cerca di realizzare l'uguaglianza dei risultati - crea dipendenza. Gli individui vengono deresponsabilizzati dall’obiettivo di produrre uno sforzo adeguato per poter contribuire al benessere sociale, al prodotto collettivo. E sono sopratutto coloro che hanno più capacità ad essere privati degli incentivi dati dalla possibilità che i loro meriti siano premiati con un “trattamento” differenziato rispetto ai meno meritevoli.
Pensiamo soltanto a quello che vediamo nei telegiornali o nelle trasmissioni televisive quando si parla della disoccupazione al Sud. È immancabile l'intervento di qualche cittadino intervistato che si lamenta dicendo: “Lo Stato non mi dà lavoro”. Ecco, questo è il tipico esempio di una cultura della dipendenza che nasce quando si deresponsabilizzano gli individui e si perde di vista il problema degli incentivi che sono alla base del successo di una società.
Ripeto: queste non sono scoperte di oggi. Sono cose con le quali la sinistra già da tempo ha cominciato a fare i conti. Basta guardare a come lo stato sociale viene ripensato nel Nord Europa, in Svezia, nei paesi scandinavi, ma anche in Germania (come si vede non sto parlando degli Stati Uniti).  L’idea di fondo è che lo stesso concetto di libertà è vuoto, se non è connesso a quello della responsabilità. Da qui discende la necessità di sostituire una concezione dell'equità fondata sull'“uguaglianza dei risultati” con una ispirata all'“eguaglianza delle opportunità”.
Ma che cosa vuol dire nel concreto? Che gli individui devono in larga parte sopportare le conseguenze delle loro stesse scelte, anche se dovere dello stato è quello di rimuovere  tutte le barriere che ostacolano la mobilità sociale. Le istituzioni pubbliche devono promuovere quello che in inglese si chiama level playing field: le condizioni di partenza devono cioè essere uguali per tutti, così che gli individui siano completamente assicurati rispetto ad eventi nei confronti dei quali non sono responsabili.
CESARATTO: L’esposizione del professor Reichlin è stata molto limpida e mi trova - come nelle attese - piuttosto in disaccordo. Ma questo disaccordo, badiamo bene, non riguarda la cultura della responsabilità. Anch’io, ovviamente, concordo sul fatto che le persone si devono comportare, dal punto di vista individuale, in maniera responsabile. Né posso dissentire dal mio interlocutore quando afferma che l’impegno va ricompensato in modo adeguato. E quando sottolinea che il discorso deve andare al di là degli aspetti meramente pecuniari. I professori universitari – per fare un esempio che coinvolge direttamente entrambi -  vivono del proprio stipendio. Ma non è certo la ricompensa pecuniaria che rende attraente questo lavoro, quanto piuttosto un tipo di soddisfazione direi “intellettuale” e “morale”.
Tutte queste cose mi sembrano abbastanza ovvie e sono d'accordo con quanto detto dal professor Reichlin.
Sono molto meno d'accordo, invece, quando propone l'esempio del disoccupato del Mezzogiorno che si lamenta perché lo Stato non gli dà lavoro. Intendiamoci: sono frasi che danno un po' fastidio anche a me per il tipo di mentalità che rivelano. Ma qui si tratta di capire, non di colpevolizzare.
Il fatto che questi cittadini richiedano con forza un aiuto esterno è la causa oppure l'effetto della situazione di depressione economica che caratterizza il Mezzogiorno?
Non è che esiste un gene meridionale della dipendenza. Non è che i meridionali sono persone – per natura - meno dotate o meno responsabili delle altre. Davvero si finirebbe per alimentare intollerabili pregiudizi se si sostenesse questo. Il punto è che una certa “cultura della dipendenza” affonda le proprie radici in problemi storici molto antichi e  complessi. Noi dovremmo esaminare questi problemi e, se possibile, cercare di risolverli. Non puntare il dito contro le conseguenze di quei problemi.
Stiamo attenti al moralismo. In questi casi, è un atteggiamento intellettuale di serie B, se non di serie C.
REICHLIN: Sgombriamo subito il terreno da equivoci. Non credo affatto che nel Sud ci sia un gene della dipendenza o cose così. Non scherziamo.
Io credo che la cultura della dipendenza sia il prodotto di una ideologia, ma anche il risultato di un certo modo di organizzare lo stato sociale, di una vecchia concezione dei diritti e della giustizia.
L’eguaglianza delle opportunità viene spesso guardata come un obiettivo minore o di compromesso, un traguardo talmente modesto per il quale non varrebbe nemmeno la pena spendersi. Guardate che se noi la prendessimo davvero sul serio essa comporterebbe cambiamenti rivoluzionari. Significherebbe per prima cosa contrastare tutte quelle forme di protezione di categorie sociali o professionali che incrostano la società italiana e che rendono difficile anche la crescita e lo sviluppo, in primis del Mezzogiorno.
L’uguaglianza delle opportunità incarna una versione molto avanzata del concetto di equità, perché significa consentire a persone che nascono in famiglie svantaggiate di arrivare ad avere quello che nell’attuale situazione non hanno.
Ma perché ciò sia possibile è necessario ripensare lo stato sociale in Italia. La nostra spesa sociale è del tutto sbilanciata in direzione della spesa pensionistica, che raggiunge il 14% del Pil, contro una media degli altri paesi avanzati assai inferiore. Contemporaneamente spendiamo molto poco per altre voci, come per esempio per le politiche attive del lavoro, o per l’assicurazione contro la disoccupazione. E questo in virtù di scelte fatte in forza di pressioni di determinati gruppi sociali. Ma vogliamo domandarci se tali scelte contribuiscono ad aiutare le persone che meritano veramente di essere aiutate?
L’idea stessa di universalizzare certe forme di protezione  in Italia sarebbe rivoluzionaria, perché richiederebbe una riformulazione integrale del nostro sistema di welfare.
Quindi, ci tengo a ribadirlo, non c'è nessuna questione “antropologica” o tanto meno “genetica” nel Mezzogiorno. C'è un grande problema politico ed economico che richiede interventi e soluzioni. Di tutto ciò si dovrebbe discutere apertamente, anche a costo di entrare in contrasto con alcune posizioni difese dai nostri sindacati.
CESARATTO: Quando sento certe argomentazioni, quando sento evocare – come ha fatto prima Reichlin – la Svezia, i paesi scandinavi, la necessità di seguire il loro esempio nel ripensare il welfare, confesso che mi viene da domandarmi: ma dove vivono questi miei colleghi economisti? Dove lo vedono, in Italia, questo stato sociale elefantiaco, invasivo, paternalista, che provvede a tutto e quindi non incentiva gli individui a darsi da fare?
Il welfare in Italia è un colabrodo. Non parliamo poi di quello che è stato l'impatto delle politiche di austerity su servizi già ampiamente inadeguati. Le nostre scuole cadono a pezzi. Così come i nostri ospedali. Forse il professor Reichlin dirà che ci sono delle responsabilità individuali anche per questo, magari che è colpa dei professori che rifiutano la valutazione.
A me sembra che prima di smantellarlo, prima di diminuire una “invasività” che non esiste nella realtà, questo benedetto stato sociale bisognerebbe costruirlo e farlo funzionare.
Mi sembra che qui sia il problema. Poi ci possiamo dividere su come farlo funzionare, su quali debbano essere gli strumenti tecnici più adatti. Non ho certamente problemi ad ammettere che bisognerebbe usare anche un po’ di “frusta” - e di incentivi - con i dipendenti pubblici, con i professori, con i medici, con chi si comporta da lazzarone.  Su questo siamo d’accordo. Ma il punto è che qui non si tratta di smantellare, ma di far funzionare il welfare. Per questo, rispetto a quel poco che c'è, io dico: guai a chi lo tocca!
Vengo quindi al riferimento del professor Reichlin alle «scelte fatte in forza di pressioni di determinati gruppi sociali». Ci vedo un approccio profondamente antipopolare. Sembra voglia instillare l'idea che è tutta la colpa è della classe lavoratrice, dei sindacati, e magari di un Partito comunista e di una sinistra italiana che li hanno  appoggiati. I “gruppi sociali” di cui Reichlin parla non sono altro che gli operai, i lavoratori. Gente che se n’è andata in pensione dopo una vita di lavoro.
Reichlin crede che siamo in piena occupazione. Io no. Questa, in ultima analisi, è la grande divergenza “teorica” fra i nostri due approcci. Non bisogna perdere di vista questa differenza perché se no non si coglie a pieno l'origine del nostro radicale disaccordo.
E allora: perché la spesa pensionistica è elevata in Italia? Non perché paghiamo pensioni troppo elevate, né perché la gente è andata in pensione troppo presto, ecc. La spesa pensionistica sul PIL è elevata perché ci sono bassi tassi di attività [il rapporto fra persone che lavorano o cercano attivamente lavoro e la popolazione in età lavorativa] e quindi un inadeguato flusso contributivo (che è comunque sufficiente a sostenere il fondo pensione per i lavoratori dipendenti; il quale, anzi, è in sovrappiù). Con tassi di attività , con tassi di occupazione più elevati, con un Pil più elevato, il peso della spesa pensionistica sul PIL stesso diminuirebbe.
Continuiamo a colpevolizzare i lavoratori o i cosiddetti “gruppi sociali”, ma i veri problemi sono altri.
REICHLIN: Io non voglio affatto smantellare lo stato sociale. Non è questa la mia proposta. Il problema, piuttosto, è di riformarlo.
Cerchiamo di essere pratici. Noi abbiamo una spesa sociale in proporzione al PIL che è in linea con quella degli altri paesi europei. Però abbiamo uno squilibrio nella suddivisione delle voci. Circa il 50% della spesa è dedicato alle pensioni. Non mi pare sia una distribuzione coerente con obiettivi di una maggiore equità sociale.
E perché la spesa pensionistica è così elevata? Il professor Cesaratto sostiene che la spiegazione vada individuata nei bassi tassi di attività. È una analisi, a mio avviso, molto debole e parziale. 
La ragione principale è che nel passato sono state fatte delle promesse che lo Stato non era in grado di mantenere. Molte persone sono andate in pensione molto ma molto presto. Troppo presto in rapporto a ciò che le tendenze demografiche consentivano di fare. Inoltre, non dobbiamo confondere la disoccupazione con la bassa partecipazione ala forza lavoro. Un disoccupato è una persona ala ricerca di un lavoro, una persona inattiva, invece, non cerca o ha spesso di cercare un lavoro. Noi dobbiamo fare in modo che gli individui abbiano sufficienti incentivi per diventare attivi sul mercato del lavoro, e penso soprattutto alle donne, ai giovani e alle persone nella fascia di età tra i 55 e 65 anni. Nel nostro paese i tassi di attività di queste categorie di cittadini sono eccessivamente bassi.
Io non voglio smantellare lo stato sociale, bensì renderlo più equo ed efficiente. E allora cominciamo a domandarci che cosa lo rende inefficiente, visto che possiamo concordare sul fatto che il problema delle pensioni non è l'unico.
Per esempio, guardiamo alla scuola. Molto spesso a sinistra si sostiene che i problemi della scuola derivano dalla scarsità di fondi. Non è così. Molto più rilevanti sono i problemi di cattiva organizzazione e di inefficienza.
Per la scuola primaria e secondaria l’Italia è assolutamente in linea con la media europea (mi riferisco alla spesa per unità di studente, che anzi ci vede leggermente al di sopra della media. Diverso sarebbe il discorso per l'università, per la quale, in effetti, spendiamo poco).
Aggiungo che mi sento anche un po' a disagio quando mi si dice che io attribuisco tutte le colpe alla sinistra o alla classe operaia. Il saggio che ho scritto insieme al professor Rustichini parla alla sinistra, diciamo così, dall'interno. Noi ci sentiamo parte di questa tradizione politica e sappiamo bene che molti dei problemi di questo paese sono attribuibili a forze sociali alle quali la sinistra in passato si è opposta.
CESARATTO: Questa non è sinistra. Le posizioni che lei sostiene – lo dico anche facendo riferimento al volume appena citato, che ho naturalmente letto con molta attenzione – non sono di sinistra. Sono discorsi da Tea Party americano. L'idea di fondo è quella della povertà come colpa (e, simmetricamente, quella della ricchezza come merito).
Riconosco che nei partiti della cosiddetta “sinistra riformista” queste idee hanno fatto il bello e il cattivo tempo negli ultimi 20 anni. Ma guardiamo anche a come sono finiti i protagonisti di quella stagione. Nicola Rossi, l'economista consigliere di D'Alema quando per la prima volta nella storia repubblicana un (ex) esponete del Partito comunista italiano si insediava a Palazzo Chigi, ora è con   Montezemolo e con Monti. Il padre “nobile” di queste idee è Michele Salvati, idee che identificano tutte le responsabilità nel Partito Comunista, che di colpe ne ha molte - principalmente che l’unico riformismo che ha espresso è quello liberista, un ossimoro -, ma le principali colpe sono - diamine! – dell’inetta borghesia italiana.
Ora, essere di sinistra non significa affatto sostenere che lo stato deve imporre per legge una assoluta uguaglianza. Per l’amor del cielo, questa è una caricatura della sinistra! Ma non significa nemmeno essere subalterni al pensiero dominante della destra.
In particolare, visto che siamo entrambi economisti e possiamo ragionare attraverso le categorie della nostra disciplina, secondo me essere di sinistra significa non credere alla teoria economica neoclassica. Non per ideologia, naturalmente, ma perché è falsa. E dunque non pensare che la povertà o la disoccupazione siano una colpa. Si tratta di un distinguo analitico, teorico, ben più profondo delle chiacchiere da salotto che possiamo fare su  “uguaglianza delle opportunità” vs “uguaglianza dei risultati”.
MICROMEGA: Due obiezioni molto “terra terra”, una per ciascuno degli interlocutori. La prima chiama in causa il professor Reichlin.
Professore, lei dice che la sinistra deve puntare esclusivamente all’uguaglianza delle opportunità, perché già solo lavorare per questo obiettivo comporterebbe mettere in cantiere riforme davvero radicali. Bene: facciamo conto che il signor Rossi sia un uomo al quale abbiamo dato tutte le possibilità di studiare, di affermarsi, di fare carriera, ma è oggettivamente poco dotato e anche un po' lazzarone. Insomma non ha acquisito alcun “merito”. Il signor Rossi si ammala di cancro. Deve potersi curare? Anche se non ha lavoro, reddito, assicurazione... anche se per tutta la sua vita non ha avuto un atteggiamento “responsabile”? Insomma,  esistono dei dritti che devono essere garantiti “a prescindere”, dei diritti rispetto ai quali esiste una “uguaglianza dei risultati”?
Per quanto riguarda invece il discorso del professor Cesaratto, è vero che non siamo in Svezia. È vero che qui non c'è uno stato sociale elefantiaco. Ma oltre alla Svezia e ai Paesi del Nord Europa nel mondo esistono anche la Romania, la Turchia, la Cina, il Vietnam. Sono tutti Paesi con i quali, in virtù della progressiva globalizzazione dei mercati, siamo entrati in concorrenza diretta.
Siamo tutti d'accordo sul fatto che il welfare sia una bella cosa. Ma possiamo ancora permettercelo? Possiamo ancora mantenere livelli di tassazione così elevati? Non si pone forse, anche in Italia, un problema di “sostenibilità” per uno stato sociale che abbiamo comunque ereditato da anni in cui la pressione competitiva era molto meno forte? 
REICHLIN: Per prima cosa vorrei dire che il tentativo del professor Cesaratto di attribuirmi l'opinione secondo cui la povertà sarebbe un colpa mi sembra molto scorretto. Non l'ho mai sostenuto. Dove lo ha letto? In quale mio articolo? In quale libro?
Cesaratto, che è un economista, dovrebbe conoscere la differenza fra bassi tassi di attività e disoccupazione. E i bassi tassi di attività sono legati anche alla scarsa presenza di incentivi. Chi non lo riconosce, francamente, mi pare vada fuori strada nel tentativo di analizzare i fenomeni dei quali ci stiamo occupando.
Dunque: la povertà non è una colpa. Lo so bene. Questa semmai è la posizione della destra, non la mia posizione.
Ciò che io suggerisco sono una serie di modifiche dello stato sociale al fine di renderlo più equo. E nell'ambito di questo processo di riforma ritengo possano essere utili alcuni strumenti in grado di accrescere il senso di  responsabilità dei singoli individui.
Naturalmente questo discorso pone problemi molto seri, uno dei quali è stato ora sollevato dal nostro mediatore.
Il diritto alla cura è sacrosanto. Lungi da me sostenere che la sanità debba essere privatizzata. Tutti vediamo che il modello statunitense non funziona. Però, ancora una volta, facciamo attenzione: nulla ci vieta di introdurre anche qui  dispositivi atti a correggere degenerazioni frutto della deresponsabilizzazione delle persone. Per esempio, favorendo la compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria.  Sempre, naturalmente, in forme eque, cioè in base alla capacità di contribuzione, e quindi al reddito.
È chiaro che se una persona, il famoso signor Rossi di cui sopra, si ammala di cancro, deve essere curato. Tutti dobbiamo avere diritto ad una assistenza sanitaria.
Ciò non toglie che la sanità deve essere organizzata in modo efficiente. E per fare questo ci vogliono incentivi e meccanismi di responsabilizzazione.
Si può benissimo dire che chi pone questi problemi è di destra. Ma non mi pare un atteggiamento molto lungimirante. Significa costruirsi un bel recinto e farsi la propria sinistra “su misura”, ignorando tutto ciò che viene fatto fuori dall’Italia.
CESARATTO: A me non sembra affatto di aver deformato le posizioni del professor Reichlin. La sua filosofia è esattamente quella che ho precisato, incentrata sul moralismo e la colpevolizzazione.
Si è parlato di sanità. Bene: nel suo libro Reichlin punta il dito contro certi stili di vita – ad esempio il fumo o l'alcool – che sono dannosi per la salute e sui quali gli individui andrebbero responsabilizzati. Ok, d'accordo. Ma vogliamo anche chiederci perché tali stili di vita sono particolarmente diffusi in certi settori sociali e meno in altri?
L'atteggiamento moralistico non ci porta da nessuna parte, come nel caso del meridionale che invoca l'aiuto dello stato per la sua condizione di disoccupato.
Il punto vero è che le teorie economiche alle quali si rifà il professor Reichlin sostengono fondamentalmente che l'occupazione si crea dal lato dell’offerta. È l'offerta di lavoro, quella cioè operata dai lavoratori che, appunto, si “offrono” sul mercato del lavoro, che genera posti. Partendo da tale impostazione teorica è normale pensare che se una persona “si dà da fare” prima o poi finirà per creare la propria occupazione. E che dunque la disoccupazione è in qualche modo una colpa. I bassi tassi di attività dipendono dalla mancanza di posti di lavoro, non dalla mancanza di incentivi a lavorare come ritiene Reichlin.
Partendo invece da un approccio che molto sommariamente potrei definire “keynesiano” (anche se la traiettoria di ricerca di Keynes è stata condotta molto oltre dai suoi allievi) la disoccupazione ci appare come un fatto fondamentalmente involontario. Sono le politiche macroeconomiche – o le politiche di intervento strutturale, come quelle che ad esempio servirebbero nel Mezzogiorno - che determinano i livelli di occupazione.
Inoltre nella prospettiva teorica che io qui mi sento di rappresentare è ben presente la consapevolezza di uno stretto legame fra giustizia sociale e livelli di occupazione: una distribuzione del reddito più egualitaria, più equa, sostiene i consumi, sostiene la domanda aggregata e quindi lo sviluppo e l'occupazione.
Il punto di vista del professor Reichlin elude completamente il problema della domanda aggregata, se non nel breve periodo.
Per quanto concerne invece la domanda sulla “concorrenza cinese” e sulla sostenibilità del nostro welfare è chiaro che siamo di fronte a un grave problema cui è difficile far fronte. Ma se c’è un dumping sociale da altri paesi lo si fronteggia come tale.
Al di là di tante letture edulcorate che in questi anni sono andate per la maggiore, la globalizzazione è stato uno degli strumenti attraverso i quali si è cercato di far arretrare gli avanzamenti delle classi lavoratrici nei paesi occidentali. Tant’è che lo sviluppo economico cinese è fondamentalmente dovuto agli investimenti esteri, oltre che ad un forte ruolo guida dello Stato.
MICROMEGA: Per chiarirci: quando lei dice che se c'è un fenomeno di dumping sociale “lo si fronteggia come tale” cosa intende esattamente?
CESARATTO: Si tratta di una questione complessa. Senza dubbio la risposta non può essere solo quella protezionista. Si dice spesso che la vera sfida è quella di fare prodotti migliori, tecnologicamente più avanzati, per concorrere su segmenti alti del mercato. Sarà anche una tesi scontata e abusata, ma oggettivamente la soluzione passa anche per questa strada.
Purtroppo il nostro Paese non ha imboccato questa direzione. E la più recente cura fondata sull'austerità non sarà certo utile a migliorare le cose.
REICHLIN: Possiamo certamente discutere di keynesismo e di teoria neoclassica. Ma io francamente credo che nel nostro dibattito questa roba non c’entri nulla.
Posso concordare sul fatto che per far fronte ad una recessione come quella che ci ha colpito possono essere utili manovre espansive, stimoli alla domanda, e quant'altro. 
Ma mi pare che siamo stati chiamati a discutere sull'assetto generale del nostro sistema di welfare, sui limiti strutturali che nel nostro Paese si frappongono alle politiche di equità.
E allora non possiamo ignorare il fatto che noi abbiamo un problema storico di bassi tassi di attività. Un problema, cioè, che non ha nulla a che fare con il ciclo economico. 
CESARATTO: Professor Reichlin, mi può fare un esempio di qualcosa che scoraggia una donna meridionale dal cercare lavoro?
REICHLIN: La tassazione, ad esempio. Il sistema fiscale può scoraggiare l’offerta di lavoro. È un fenomeno abbastanza provato.
In ogni caso, lo ripeto, vorrei evitare di perderci in astruse dispute sulle teorie economiche.
Cerchiamo di andare al sodo. E pensiamo alle riforme del mercato del lavoro e del sistema di protezione contro i rischi di disoccupazione promosse in Germania dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder nella metà del decennio Duemila.
Se Cesaratto vuole - come mi sembra voglia fare - mettere Schröder, e con lui tutta la socialdemocrazia tedesca, fuori dal campo della sinistra può benissimo farlo. Sinceramente, però, mi pare una posizione un po’ sterile.
Quelle riforme seguivano un ragionamento identico a quello che ho cercato di accennare anche in questa sede. Per esempio si constatava che l’eccesso di durata dei sussidi di disoccupazione incentivava le persone a rimanere fuori per troppo tempo dal mercato del lavoro, scoraggiava la ricerca di una nuova occupazione. E si è cercato di porvi rimedio rimodulando le formule del vecchio sistema di welfare.
Riguardo alla globalizzazione io rifiuto l’idea che questo fenomeno sia stato l’invenzione di non so quale spectre del capitalismo mondiale per mettere in difficoltà la classe operaia occidentale.
Metterla su questo piano significherebbe trascurare dati di fatto importanti. Innanzitutto questo processo ha consentito a miliardi di persone – soprattutto in India e in Cina - di uscire dalla povertà. Ha favorito la nascita di una classe media e di un benessere diffuso in grandi zone del pianeta. A chi stanno a cuore i temi dell'equità e della lotta alla povertà non dovrebbe sfuggire che un tale fenomeno è stato largamente positivo, pur con tutti i problemi che ha comportato.
Certamente oggi i paesi occidentali si trovano di fronte a sfide inedite. Non siamo più soli come nel dopoguerra, quando i paesi di più antica tradizione industriale rappresentavano il 70-80% del prodotto mondiale.
Ora dobbiamo fare i conti con popolazioni che fino a poco tempo fa vivevano nell'assoluta miseria e che oggi competono con noi nella produzione di merci per il mercato globale. Ma facciamo attenzione ad attribuire a questo nuovo scenario tutte le colpe per il peggioramento della condizione della classe lavoratrice in occidente.
La depressione dei salari dei lavoratori non qualificati  come conseguenza della globalizzazione, ad esempio, è una dinamica tutt'altro che dimostrata nei più recenti studi empirici.
E ancora: se noi guardiamo ai dati sull’estensione del welfare, della spesa sociale nei paesi occidentali, vediamo che essa non è affatto diminuita nei cosiddetti anni del trionfo del “neoliberismo” (come viene spesso definita l'epoca inauguratasi negli anni Ottanta). Quindi non è vero che la globalizzazione ha determinato un ridimensionamento della spesa e dello stato sociale.
MICROMEGA: Professore, lei ha fatto riferimento a Schröder.  Ma potremmo citare anche Blair, Clinton, e tanti altri. Queste idee sono egemoni da lungo tempo nella sinistra riformista occidentale. Perché questo “vittimismo” quando se ne parla? Perché insistere tanto sul fatto che la sinistra deve cambiare e si deve svecchiare? La sinistra riformista, anche in Italia, è forse molto più simile a come la descrive lei che a come la vorrebbe Cesaratto. E infatti immagino che al professor Cesaratto l'attuale sinistra non piaccia un granché.
REICHLIN: Ma è esattamente quello che ho detto prima. Le nostre idee possono certamente essere criticate. Ma non sono affatto nuove e non sono certo estranee al campo della sinistra.
L'Italia, tuttavia, presenta a mio avviso una non invidiabile eccezionalità. Qui queste idee non si sono mai affermate davvero.
C'è stato un solo momento nella storia recente nel quale è sembrato che potessero prendere piede. Durante il primo Governo Prodi, quando la Commissione Onofri cominciò a mettere nero su bianco una riforma dello stato sociale coerente con le idee maturate in quel periodo all'interno delle formazioni del centrosinistra. Fu un tentativo coraggioso e interessante, che conteneva molte delle sollecitazioni sulle quali mi sono soffermato nei precedenti interventi.
Ma fallì miseramente. E perché fallì? Perché il centrosinistra pian piano si rese conto che se voleva fare quel tipo di riforme doveva modificare radicalmente buona parte dei meccanismi di protezione sociale ereditati dal passato. Un esempio per tutti: il modo con il quale è utilizzata la cassa integrazione in Italia. Abbiamo a che fare con un abuso abnorme, perché va molto al di là dello scopo per il quale era stata pensata in origine. In realtà serve spesso a mantenere posizioni, posti di lavoro, in imprese che non hanno alcuna possibilità di riprendersi. Così si buttano via risorse che invece potrebbero essere utilizzate per cercare di reinserire le persone nel mercato del lavoro, in aziende più efficienti e competitive (e dunque con più futuro).
Ecco, quando si auspicano riforme in linea con idee che sono già largamente maggioritarie negli altri partiti di ispirazione socialista e socialdemocratica in Europa, è necessario farsi carico del peso di dover scontentare qualcuno. I cambiamenti non sono mai a costo zero. La sinistra italiana ancora vi si oppone perché continua a essere aggrappata a posizioni di conservazione.
CESARATTO: Delle volte a me sembra che il professor Reichlin dica un po’ tutto e il contrario di tutto. Dice che in Italia non c’è equità perché non c'è protezione sociale. Poi dice che bisogna fare come in Germania, dove la protezione c'era ma l'hanno ridotta. Ora: se in Italia non c'é, cosa diavolo dobbiamo ridurre?
La cassa integrazione si può naturalmente ridiscutere. Possiamo vedere se sia ancora uno strumento valido oppure no. Il professor Reichlin insiste molto sulla riqualificazione professionale: vada a fare questi discorsi nel Sulcis! Quale riqualificazione si può offrire in quelle zone? Forse un corso di lingua tedesca, così che questi lavoratori possano emigrare in Germania...
Lo stesso Reichlin dovrà ammettere che questa cassa integrazione non è poi così pervasiva, nel senso che copre solo una parte dei lavoratori italiani. Non mi pare costituire questo enorme disincentivo a cercare una nuova occupazione o una nuova attività. E ritenere che imposte sul salario sono troppo elevate disincentivino una donna meridionale a lavorare si commenta da sé.
E qui ritorno a un nodo che a me pare assolutamente centrale se volgiamo andare alla profondità dei problemi.
Noi vediamo e leggiamo la realtà attraverso una determinata teoria. È un assunto elementare nella filosofia della scienza. Il mondo del professor Reichlin è un mondo, lo ripeto, di piena occupazione. Un mondo in cui se ci si dà sufficientemente da fare il mercato certamente ricompenserà il nostro sforzo. Per cui la disoccupazione è una colpa, la povertà è una colpa, e lo Stato, quando protegge le persone in difficoltà, rischia di “impigrire” gli individui e di comprometterne l'intraprendenza.
A mio avviso la disoccupazione, invece, è un problema assolutamente macroeconomico.
MICROMEGA: Professore, la vostra divergenza teorica è molto chiara e difficilmente ricomponibile. Ma su alcune cose molto pratiche può esserci accordo? Semplifico con uno slogan brutale – mi perdonerà il professor Reichlin – le proposte che abbiamo appena sentito: no alla protezione del posto di lavoro, sì alla tutela del lavoratore con sussidi di disoccupazione.
Condivide questo approccio?
CESARATTO: Le istituzioni si possono naturalmente cambiare e rendere migliori. Ma se lei mi fa una domanda sull'“approccio” io dico che dobbiamo evitare di puntare tutto su questa fantomatica responsabilità dell'individuo. Bisogna discutere delle istituzioni collettive e dei comportamenti collettivi e di ciò che li determina. Schröder non era di sinistra. Blair non era di sinistra. E questo proprio per la filosofia di fondo che li ispirava. Potremmo rubricarli più appropriatamente nel “conservatorismo compassionevole”.
Vogliamo parlare delle tanto universalmente elogiate riforme di Schröder? Grazie ad esse la disuguaglianza in Germania è molto cresciuta. E questo ha creato problemi all'intera Europa perché la maggiore flessibilità e la compressione dei salari reali (cresciuti molto meno della produttività) sono stati funzionali all'affermazione del modello mercantilista tedesco. Non solo non erano cose di sinistra – cioè cose che rispondevano all'esigenza di una maggiore equità e giustizia sociale – ma sono state riforme dannose per il sistema economico europeo nel suo complesso. Hanno compresso la domanda aggregata e la crescita e hanno esacerbato gli squilibri fra i vari paesi dai quali ha avuto origine anche la recente crisi del debito.
La redistribuzione della ricchezza dal basso verso l'alto non è solo ingiusta: danneggia l'economia perché danneggia i consumi e, con essi, la crescita.
REICHLIN: Lascio al professor Cesaratto il privilegio di  stabilire cosa sia di sinistra e cosa non lo è.
Io rimango ancorato ai fatti. E i fatti mi dicono che le riforme di Schröder in Germania hanno ridotto il tasso di disoccupazione dal 10% al 6%. Hanno dato alla Germania le migliori performance economiche degli ultimi trent’anni. La Germania - ricordiamolo un momento - era considerata “il grande malato d’Europa” fino all’inizio del 2000. Ed ora è sotto gli occhi di tutti il modo con cui ha assorbito lo choc recessivo del 2008: meglio di qualsiasi altro paese europeo.
E allora: questo ha determinato una maggiore dispersione dei salari? La risposta è sì. Ha determinato, in effetti, una maggiore dispersione dei salari. Forse sarebbe il caso che la sinistra accettasse qualche prezzo da pagare in cambio di un dimezzamento della disoccupazione e di un aumento sostanziale dei tassi di crescita.
CESARATTO: Va bene, la Germania fino agli anni 2000 inoltrati era il “malato d'Europa”. Poi un po’ di crescita c’è stata. Ma è stata resa possibile grazie alle importazioni degli altri, in virtù di quel meccanismo squilibrato che ho appena citato. Lei sta proponendo il medesimo modello per tutti: compressione dei salari ed esportazioni.
Benissimo. Però faccio una domanda banale: se in tutta Europa, o addirittura in tutto il mondo, attuiamo queste medesime politiche, dove andiamo a esportare? Su Marte?
Difficilmente tale modello – che potremmo definire di “deflazione competitiva” - può essere un modello generalizzato di successo. Ha creato un pochino di crescita in Germania. Ma nel 2010 l'economia tedesca ha anche approfittato dell'indebolimento della moneta unica a causa dei problemi degli altri. L’euro si è svalutato di un cospicuo 10% rispetto al dollaro e la Germania ha cominciato a vendere molto di più spiazzando il Giappone in Cina. Vedremo ora come andranno le cose con questa interminabile recessione nel Vecchio Continente e con la guerra valutaria che pare si stia scatenando a livello internazionale.
Certamente la Germania è una società molto efficiente, è  un’economia molto dinamica. Se la passano molto meglio di noi. Ma l'impatto di una crisi di tali proporzioni si fa – e si farà – sentire anche lì.
MICROMEGA: Dato che ci avviamo alle conclusioni, si potrebbe mettere sul tavolo un altro tema fondamentale legato al welfare: la scuola.
Per la sinistra, storicamente, la scuola deve essere gratuita per tutti...
REICHLIN: Il discorso sulla scuola e l'istruzione credo vada affrontato facendo una distinzione di fondo.
Da una parte c'è la scuola primaria e secondaria. Non credo che qui ci debba essere una diretta partecipazione degli utenti ai costi del servizio, perché a questo livello l'istruzione ha degli effetti esterni positivi di natura non soltanto economica. Ciò rende necessaria e auspicabile la sua gratuità. Poi possiamo discutere sull'introduzione di una maggiore autonomia nell’insegnamento e sulla promozione di una maggiore concorrenza nell'offerta scolastica per sviluppare modelli più virtuosi. Ma la scuola primaria e secondaria deve restare gratuita per tutti.
Diverso il discorso che va fatto per l'università. I vantaggi economici che derivano dal conseguimento di un titolo di studio universitario sono in larga parte vantaggi individuali.
In secondo luogo, dobbiamo porre con forza una questione di pari opportunità. Prendiamo ad esempio un ragazzo che magari viene da un paese di una provincia meridionale e che può  essere tentato dall’idea di andare all’università. Ciò che impedisce a questo ragazzo di andarci non è la retta universitaria da mille o duemila euro, o addirittura  cinquemila euro l'anno. Bensì l'enorme costo dovuto al suo trasferimento (alloggio, vitto, ecc.). Per non parlare del “costo opportunità” dovuto al fatto che questa persona dovrà entrare nel mondo del lavoro in un periodo posticipato, molti anni dopo.
E allora io ritengo che per garantire alle persone svantaggiate di accedere all’istruzione universitaria sia molto importante estendere il “diritto allo studio”: più borse di studio (e più consistenti), ma anche più prestiti di onore (cioè prestiti, garantiti dallo Stato, che gli studenti possono contrarre e restituire successivamente, condizionatamente alla condizione nel mercato del lavoro, cioè in proporzione al reddito che si è effettivamente conseguito).  
Tutto questo naturalmente comporta dei costi. E dunque occorre trovare delle risorse. Ecco: queste risorse si possono recuperare proprio da quegli studenti che invece si possono permettere di andare all'università.
Ricordare un dato che è molto noto: nella stragrande maggioranza i ragazzi che vanno all’università sono figli di professionisti o di persone che appartengono a classi di reddito superiori. Però l’università è quasi gratis per tutti. Ciò significa che i costi sono ripartiti sulla fiscalità generale, cioè su tutta la popolazione. In altre parole i genitori dei ragazzi che non accedono all’università contribuiscono alle spese universitarie anche dei figli dei ricchi.
Sarebbe più giusto se le famiglie più agiate contribuissero di più, e direttamente, all’istruzione dei propri figli.
MICROMEGA: Questo comporterebbe, per chiarirci, un aumento delle rette rispetto a quelle attuali…
REICHLIN: Un aumento modulato delle rette, in proporzione al reddito, alla capacità di spesa delle famiglie, compensato da un’estensione molto maggiore delle borse di studio.
MICROMEGA: Anche adesso, però, le rette sono proporzionali al reddito.
REICHLIN: Sì, ma sono molto basse. Teniamo conto che la spesa per studente nell’università italiana si aggira introno ai 7-8 mila euro. E mediamente le rette sono collocate fra i mille e i duemila euro.
CESARATTO: Io non ho obiezioni “di principio” su questo. Se si tratta di correggere un’iniquità che in parte c’è nel sistema delle rette universitarie, discutiamone pure. Purtroppo in questo Paese dobbiamo anche fare i conti con l’inefficienza del sistema fiscale, con l’evasione. Anche se fosse istituita una maggiore progressività nelle rette non è detto che faremmo davvero pagare ai più ricchi i costi maggiori. In Italia di ricchi ce ne sono pochissimi, da un punto di vista fiscale.
Però questo è un problema tecnico e non una obiezione di principio al ragionamento. E sinceramente sento di condividere la denuncia del professor Reichlin sul fatto che siamo in una situazione di ingiustizia se il figlio dell’avvocato benestante o del notaio paga quasi quanto il figlio dell’impiegato o dell’operaio.
Se però affrontiamo il discorso degli incentivi allo studio non possiamo scinderlo da quello dell'occupazione.
Io simpatizzo molto con la vecchia idea marxista dell’“esercito industriale di riserva”: il capitalismo funziona bene solo con un pool di disoccupati a disposizione e là dove il capitalismo vuole cambiare le cose a suo favore aumenta la consistenza di questo pool. Il professor Reichlin la riterrà una idea obsoleta, ma è ciò che insegniamo anche oggi nelle università con la “curva di Phillips”: non è molto differente, in fondo.
Io mi concentro su questi aspetti perché una disoccupazione così elevata come quella che abbiamo in Italia ha un effetto devastante anche sul sistema dell’istruzione. Se i ragazzi avessero più lavoro magari non rimarrebbero parcheggiati per anni, senza costrutto e prospettive, nelle università (quelli meno motivati a studiare, intendo, andrebbero a lavorare, poi magari ci ripenserebbero). Le università sarebbero liberate da questa zavorra di costi e sarebbero senza dubbio più efficienti.
Il problema, ancora una volta, è quello di creare posti di lavoro. E per farlo bisogna mettere in campo le giuste politiche economiche.
REICHLIN: Le persone che hanno un titolo di studio elevato hanno innanzitutto una minore probabilità di essere disoccupate. Uno dei dati più eclatanti dell’economia italiana è il basso livello di istruzione della forza lavoro. È un elemento che ci crea tantissimi problemi di competitività e di modello produttivo, se vogliamo ricollegarci al discorso di prima sulla globalizzazione e le sfide che essa ci presenta.
Abbiamo una necessità impellente di aumentare il livello di istruzione dei cittadini italiani, ma soprattutto di aumentarne la qualità, che è troppo bassa.
Per quanto concerne il discorso più generale sul welfare concludo ribadendo che la percentuale di spesa sociale rispetto al PIL in Italia, inclusa l’istruzione, è più o meno in linea con quella degli altri paesi europei. Possiamo anche scordarci che questo livello di spesa possa essere aumentato nei prossimi anni. E allora dobbiamo fare un po' di ordine, ripensare ad alcune formule e modelli per la fornitura di determinati servizi.
Io credo che la sinistra debba cominciare a ipotizzare che una parte di questi servizi, inclusa l’istruzione, debba essere a carico degli stessi utenti. Dobbiamo avviare forme di compartecipazione che garantiscano il massimo di equità e il massimo di esenzione per i cittadini che si trovano in una posizione più svantaggiata.
Nei prossimi anni ci giocheremo tutto intorno a questi problemi: pensare che possiamo mantenere lo stesso livello di spesa per le pensioni, ma anche aumentare la spesa per la sanità, aumentare la spesa per l’istruzione e magari anche introdurre il salario di cittadinanza – che pare andare molto di moda adesso - è una pia illusione.
La sinistra deve cominciare a utilizzare un linguaggio di verità nei confronti degli elettori e del popolo italiano. Facendo, contemporaneamente, un ragionamento di carattere “culturale”.
Ora mi si accuserà di essere un moralista, ma io penso che bisognerà cominciare a dire a tutti – e alle famiglie in primo luogo - che la spesa per l’istruzione è una spesa importante.  Io vedo genitori che comprano la macchina ai figli, magari li mandano in vacanza alle Maldive, ma poi si scandalizzano se viene chiesto loro di spendere qualche soldo in più per l'istruzione.
Ecco, le priorità vanno riformulate anche promuovendo un rinnovamento della mentalità, un cambiamento di natura morale e culturale.
CESARATTO: Il professor Reichlin dice: la sinistra deve fare un discorso di verità alla gente; i soldi sono di meno, ce ne saranno sempre di meno, e quindi si tratta di ristrutturare quello che c’è, rendendolo più efficiente.
Sull'efficienza secondo me possiamo trovarci perfettamente d'accordo. Quando delle persone ragionevoli si mettono a tavolino per cercare soluzioni concrete secondo me non è difficile trovare dei punti di convergenza (almeno per quel che riguarda le persone di questo consesso).
Rifiuto invece la logica secondo la quale le risorse non ci saranno e non possono aumentare. Potrebbero benissimo aumentare se le politiche fossero completamente diverse da quelle attuali.
Naturalmente nessuno ha la bacchetta magica. Però l'austerità che abbiamo subito negli ultimi anni non è affatto funzionale a ristrutturare in meglio lo stato sociale. Stiamo semplicemente andando verso un declino sempre più accelerato. Cosa vogliamo riformare in questa situazione? Chi va a chiedere un prestito di onore con questi tassi di disoccupazione?
Tantissime cose vanno fatte e sicuramente su molte potremmo anche trovare un accordo.
Ma se un'accusa io mi sento di formulare alla sinistra italiana è quella di essere stata, in passato, molto, troppo, sensibile alle sirene delle tesi riproposte qui dal professor Reichlin.
Oggi ci vuole più attenzione alla crescita. Da un punto di vista – diciamo così – keynesiano - ci vuole un radicale cambiamento delle politiche macroeconomiche in Europa per rilanciare la domanda aggregata, l'occupazione, lo sviluppo.  Di questo dovrebbe occuparsi la sinistra.

(a cura di Emilio Carnevali)

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