venerdì 30 settembre 2016

I puntini sulle €. Risposta a Lunghini a più firme

Se è l’euro la causa dei tanti populismi europei

 di Sergio Cesaratto, Massimo D’Antoni, Vladimiro Giacché, Mario Nuti, Paolo Pini, Antonella Stirati

Intervenendo sul manifesto del 23 settembre Giorgio Lunghini fornisce “qualche cifra sugli effetti dell’abbandono della moneta unica”. In sintesi: l’uscita provocherebbe una svalutazione del 50% della nuova valuta italiana, cui conseguirebbe nel primo anno un’inflazione del 15%, che poi si attesterebbe su una media del 20% nel quinquennio successivo. La svalutazione farebbe raddoppiare il valore dei titoli di Stato in mano ai non residenti, determinando il default dello Stato italiano, mentre l’inflazione farebbe dimezzare il valore dei titoli di Stato in mano ai residenti, causando un crollo del reddito disponibile delle famiglie dell’11%. L’inflazione, inoltre, eroderebbe i salari, causando una perdita media annua di reddito del 10%. Il risultato sarebbe una perdita di Pil pari a circa il 40% per l’Italia nel primo anno, seguito da 15% negli anni successivi per almeno un triennio.
Nessuno si nasconde le criticità dell’abbandono della moneta unica. D’altra parte, lo stesso Lunghini ammette che essa è insostenibile. Corre quindi l’obbligo di discuterne gli esiti con serenità e attenendosi, nella misura del possibile, alla base fattuale fornita dai dati statistici e dalla ricerca scientifica.

Nelle statistiche della Banca d’Italia leggiamo che una perdita di Pil del 40% come quella paventata da Lunghini ha un solo precedente storico: i cinque anni del secondo conflitto mondiale. Questo per valutare la plausibilità dello scenario, che inoltre è aritmeticamente incoerente. Lunghini cita un crollo del 10% di redditi da lavoro: un valore che è difficile conciliare, senza ipotesi “eroiche” sulle altre componenti di reddito, con una caduta del 40% dei redditi totali.
Va anche valutata la tesi secondo cui a fronte di una perdita di competitività del 30% verso la Germania l’Italia svaluterebbe del 50% portando l’inflazione al 20%. Il ministero dello Sviluppo Economico ci ricorda che al mondo non siamo in due: fra i 30 partner commerciali più importanti dell’Italia solo otto appartengono all’Eurozona. Rispetto agli altri, che esprimono il 44% del nostro commercio, abbiamo già svalutato del 20% fra marzo 2014 e marzo 2015. Ne discendono due considerazioni. Primo: i paesi che già hanno subito la svalutazione competitiva di Draghi difficilmente lascerebbero cadere il cambio di un concorrente pericoloso come l’Italia di un altro 50%. Secondo: con un euro così indebolito rispetto ai paesi da cui importiamo materie prime, di inflazione non se n’è vista.
L’idea che i riallineamenti del cambio oltrepassino il nuovo equilibrio (overshooting), per cui una perdita di competitività del 30% porterebbe a una svalutazione del 50%, è propria dei modelli economici neoliberisti, che non trovano grande riscontro in pratica. L’idea che esista un legame diretto fra svalutazione e inflazione è anch’essa smentita dall’evidenza: in nessuno dei paesi europei che hanno reagito alla crisi del 2009 svalutando in media del 25,7% (Inghilterra, Polonia, Svezia) si è manifestata inflazione nelle proporzioni evocate da Lunghini (l’inflazione è stata in media del 2,5%). Esiste un’ampia letteratura che riscontra e spiega perché le grandi svalutazioni non sono associate a grandi inflazioni (Burstein et al. sul J. Pol. Ec. del 2015). Ci scusiamo per il riferimento pedante: il rischio apparire tali ci sembra inferiore rispetto a quello di non essere scientificamente rigorosi.
Nell’esprimere le proprie opinioni occorre interrogarsi sull’opportunità politica di presentarle come fatti intervenendo in un dibattito così delicato. Se quello che preoccupa Lunghini, come tutti noi, è l’avanzata delle destre populiste, dobbiamo allora confrontarci sul punto che combattere il populismo con argomenti altrettanto populisti è una strategia che finora è risultata controproducente. L’unica speranza di contrastare le destre è aprire a sinistra un dibattito basato su fondamenta analitiche e fattuali più solide
***Sergio Cesaratto, Massimo D’Antoni, Vladimiro Giacché, Mario Nuti, Paolo Pini, Antonella Stirati

La replica: “Se nessuno spiega le conseguenze positive del no euro”

Nessuno dei miei molti articoli pubblicati in tanti anni sul manifesto aveva suscitato tanti commenti: quasi 50 sullo stesso manifesto, almeno altri 50 in altri luoghi. Commenti quasi tutti nella forma dell’invettiva e della denuncia di un mio bieco anticomunismo.
Del tutto diverso, per forma e contenuto, è il commento di Paolo Pini e altri amici, che anzi ringrazio. Ricordo soltanto che nel mio testo avevo parlato di “stime”, e non di “dati” o di “fatti”: dunque è benvenuta qualsiasi correzione, soprattutto se così autorevole.
Sì, una delle mie preoccupazioni è l’avanzata delle destre populiste, tuttavia anche a sinistra talvolta si parla di una uscita dalla Uem e dall’euro. Nessuno ha però ancora dato risposta alla domanda in cui consisteva il mio articolo: quali potrebbero essere le conseguenze positive di una uscita dalla Uem e dall’euro, per l’economia italiana tutta e in particolare per i lavoratori? E desidero anche ricordare che sempre sul manifesto, tre anni fa, era uscita una lettera aperta sulla necessità di cambiare le politiche di austerità e di modificare i Trattati, lettera che qui viene ripubblicata.
Giorgio Lunghini

La lettera-appello: “Invertire la rotta”

Al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano
Al Presidente del Consiglio dei Ministri, Enrico Letta
Al Presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso
Al Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi
La crisi dura ormai da sei anni. Innescata dalla povertà di massa figlia di trent’anni di neoliberismo,
esaspera a sua volta povertà e disuguaglianza. Moltiplica l’esercito dei senza-lavoro. Distrugge lo
Stato sociale e smantella i diritti dei lavoratori. Compromette il futuro delle giovani generazioni.
Produce una generale regressione intellettuale e morale. Mina alle fondamenta le Costituzioni
democratiche nate nel dopoguerra. Alimenta rigurgiti nazionalistici e neofascisti.
Concepita nel segno della speranza, l’Europa unita arbitra della scena politica continentale
rappresenta oggi, agli occhi dei più, un potere ostile e minaccioso. E la stessa democrazia rischia di
apparire un mero simulacro o, peggio, un pericoloso inganno.
Perché? È la crisi come si suole ripetere la causa immediata di tale stato di cose? O a determinarlo
sono le politiche di bilancio che, su indicazione delle istituzioni europee, i paesi dell’eurozona
applicano per affrontarla, in osservanza ai principi neoliberisti?
Noi crediamo che quest’ultima sia la verità. Siamo convinti che le ricette di politica economica
adottate dai governi europei, lungi dal contrastare la crisi e favorire la ripresa, rafforzino le cause
della prima e impediscano la seconda. I Trattati europei prescrivono un rigore finanziario
incompatibile con lo sviluppo economico, oltre che con qualsiasi politica redistributiva, di equità e di
progresso civile. I sacrifici imposti a milioni di cittadini non soltanto si traducono in indigenza e
disagio, ma, deprimendo la domanda, fanno anche venir meno un fattore essenziale alla crescita
economica. Di questo passo l’Europa la regione potenzialmente più avanzata e fiorente del mondo
rischia di avvitarsi in una tragica spirale distruttiva.
Tutto ciò non può continuare. È urgente un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni politiche,
nazionali e comunitarie il compito di realizzare politiche espansive e alla Banca centrale europea una
funzione prioritaria di stimolo alla crescita.
Ammesso che considerare il pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui
una scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un errore
imperdonabile e la responsabilità più grave che una classe dirigente possa assumersi al cospetto
della società che ha il dovere di tutelare.
*** Étienne Balibar, Alberto Burgio, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Marcello De Cecco, Luigi
Ferrajoli, Gianni Ferrara, Giorgio Lunghini, Alfio Mastropaolo, Adriano Prosperi, Stefano Rodotà,
Guido Rossi, Salvatore Settis, Giacomo Todeschini, Edoardo Vesentini

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